Cercando il bandolo della matassa (prima parte)

Pubblicato: Sabato, 09 Luglio 2016 Scritto da Giorgio Rossi

 

 

Sono passati circa 35 anni da quando, nell'agosto del 1981, la prima fotocamera senza pellicola, la Sony Mavica fu presentata al mondo (anche se la prima vera fotografia ottenuta attraverso un processo totalmente elettronico fu realizzata nei laboratori Kodak nel 1975 grazie a un prototipo di fotocamera digitale di S.Sasson). Sempre nel 1981 in Francia nacque la rete Minitel, che diventò rapidamente la più grande rete di computer al di fuori degli USA. Non so quanti fotografi, in quegli anni, furono consapevoli che si trattava di rivoluzioni epocali, destinate a sconvolgere le acque più o meno placide della fotografia, del mondo del lavoro, dei rapporti tra esseri umani.Lungi da me di volere tracciare pedissequamente la storia di questa evoluzione tecnologica e di quello che ha comportato. Del resto sono discorsi forse un po' triti e, a chi si trova oggi come oggi immerso nel quotidiano, poco importa di come ci siamo arrivati. Chi ha iniziato in questa  ultima decina anni a occuparsi di fotografia si è trovato una situazione ormai non dico consolidata ma quasi.

Ma come se la passa oggi  la fotografia, che per alcuni può essere una professione e per altri un piacevole divertimento? E soprattutto, in che direzione andrà? Cercherò di analizzare la situazione in questa e nelle prossime puntate, per chi avrà la bontà o la resistenza per seguirmi.

 

 
Prototipo della Sony Mavica (1981)

 Oggi si parla di fotografia digitale e di fotografia analogica, come se fossero mondi diversi ed opposti. A me pare quasi buffa la definizione di "fotografia analogica". Mi pare sia nata di conseguenza, sia diventata necessaria da quando ha iniziato a diffondersi la fotografia digitale. Per lo più mi sembra una definizione ambigua. In fondo anche la fotografia digitale è analogica, cioè produce un analogo del reale, esattamente come la fotografia tradizionale e fotochimica. Forse si tornerà a parlare semplicemente di fotografia quando sopravviverà solo quella digitale, o forse continueranno ad esistere  ancora per anni entrambe. Però mi preme rilevare alcune faccendine che considero interessanti.

Torniamo con la mente alle origini,  a quel Henry Talbot, la volpe che inventò il metodo fotografico negativo/positivo basato sullo ioduro d’argento che prese il nome di Calotipia o anche Talbotipia. La fotografia era già stata inventata da Niepce al quale poi seguì Daguerre ma a Talbot si deve l’aver creato una sorta di negativo attraverso il quale, al contrario dei sistemi precedenti, produrre tante stampe a contatto, il procedimento che poi ha dato vita al binomio pellicola-stampa su carta.

"Riflettevo sull'immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta... quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre."

 

William Henry Fox Talbot (1864)

 

Era essenzialmente uno studioso, competente di fisica e di chimica. Probabilmente non immaginava quali risvolti avrebbe avuto la sua invenzione, il procedimento fotochimico, negativo/positivo, su carta. Correva l'anno di grazia 1841. Contemporaneamente vennero sviluppati anche altri metodi di produrre immagini per reazione chimica alla luce, tuttavia il negativo, originariamente su carta e il procedimento negativo/positivo di Talbot furono la tecnica destinata al successo. La fotografia destò vivo interesse in chi, evidentemente, non aveva altro da fare per occupare il proprio tempo libero. Talbot fu comunque sicuramente consapevole che tale invenzione gli avrebbe potuto procurare qualche soldino, tant'è che mise su uno studio fotografico. Passarono ancora  una quarantina di anni, la fotografia divenne rapidamente molto interessante anche per l'industria dei grandi numeri. Arrivarono sul mercato i primi apparecchi fotografici portatili e le pellicole in rullo grazie a George Eastman. "Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto" fu lo slogan col quale Eastman, fondatore della Kodak, promosse le prima macchine fotografiche destinate a tutti, anche ai non professionisti. Ove per professionista si poteva intendere chi aveva competenze tecniche ed abilità sufficienti per condurre a temine tutto il procedimento e da tale mestiere cercava guadagnarsi il pane quotidiano. 

 

Sopra, il procedimento negativo-positivo e, sotto, lo studio Talbot

 

Era una fotografia in B/N, per quella a colori ci vollero ancora anni, arrivò intorno al 1907 grazie all’Autochrome dei fratelli Lumiere. Ma occorre attendere ancora diversi anni perché si arrivi ad un processo colore simile a quello moderno. Difficilmente una persona, se pur abile tecnicamente, avrebbe potuto eseguire una fotografia a colori da sola. A livello di tempo/spesa, sarebbe stato comunque poco conveniente. Da quando inizia la produzione industriale di fotocamere e materiali sensibili, iniziano a differenziarsi due categorie di fotografi. Non voglio far distinzioni tra professionisti e non. Preferisco farla tra chi scatta per diletto ed ha solo vaghe nozioni tecniche e di composizione, e  chi con passione è in grado di portare a termine l'intero procedimento, che mi piace definire artigianato.  Chi ne è in grado possiede l'arte. Tuttavia ai fotografi, definire arte il proprio operato, interessa in genere poco, in fondo è un mestiere come l'idraulico o il calzolaio. Per essere fatto bene deve essere eseguito a "regola d'arte", esattamente come si dice per altri mestieri. Entrambi sono fotografi. Tuttavia il passaggio dalla fotografia "argentica" a quella digitale è una evoluzione concettualmente e tecnicamente rilevante. Si passa da una fotografia "dei materiali" ad una fotografia "degli strumenti". In fondo, per eseguire una fotografia argentica, è  sufficiente una camera obscura, un buchino per fare passare la luce per un certo lasso di tempo e del materiale sensibile atto ad essere impressionato, scritto dalla luce. Una fotocamera di oltre 50 anni, ma anche di 100 anni or sono, può produrre ottime fotografie. Gli strumenti e i materiali sensibili hanno raggiunto una maturità evolutiva, difficile aspettarsi ulteriori miglioramenti. Salvo ulteriori evoluzioni e perfezionamenti tecnici sempre possibili ma tutto sommato non indispensabili, nulla o quasi è cambiato rispetto alle origini della fotografia. Il prodotto è un materiale... un negativo, un diapositivo, una stampa, un qualcosa di fisico che si può vedere, toccare, annusare senza ulteriori strumenti. Viceversa nella fotografia numerica il prodotto sono informazioni numeriche, possono essere visualizzate e tradotte in immagine solo con ulteriori strumenti. Una scheda di memoria può trattenere custoditi questi numeri. Possono essere cancellati, possono essere scritti numeri nuovi, non c'è consumo di materiali.  C'è invece consumo di energia elettrica, non irrilevante.

L'unico eventuale consumo di materiali si ha se da tali numeri si vogliono ottenere immagini stampate. Nella fotografia argentica (o comunque chimica) il negativo o il diapositivo sono gli unici originali possibili. Farne una copia indistinguibile dall'originale è tecnicamente impossibile. Da un originale per via fotochimica si possono ottenere infinite stampe, magari simili tra loro ma raramente identiche. In fotografia digitale, un jpeg o un raw possono essere riprodotti esattamente identici in migliaia di copie. In un attimo senza alcuna difficoltà. Basta fare un copia/incolla. Il prodotto dello scatto non ha più caratteristiche di unicità, ciò può avere anche vantaggi. Un negativo o un diapositivo su pellicola possono andare distrutti per cattiva conservazione o da un incendio. Un originale digitale può essere replicato, salvato  e custodito a futura memoria in diversi media e anche nel Cloud. Va detto che siamo assolutamente sicuri che un originale su pellicola può essere conservato per centinaia di anni, ne abbiamo le prove. Un raw  di oggi tra qualche anno potrebbe non essere più decriptatile da nessun software. Per un fotografo l'archivio dei suoi scatti su pellicola è di fondamentale importanza, li considera appunto originali irriproducibili. A un gallerista interessa solo la stampa finale, considera questa come originale. Deve essere garantita inalterabile nel tempo, eseguita a regola d'arte e in copia unica o comunque numerata, dal momento che sarebbe difficile dare un valore monetario rilevante  ad una stampa riprodotta in migliaia di copie. Ciò in un senso è contro la natura della fotografia che nasce per essere, volendo, riprodotta in migliaia di copie. Una stampa di un originale per via fotochimica può assumere un valore di unicità o rarità poiché si tratta comunque spesso di un lavoro artigianale difficilmente esattamente replicabile all'infinito. Una stampa da file digitale su ink jet può essere riprodotta in migliaia di copie assolutamente identiche. Si tratta di un procedimento essenzialmente meccanico, solo l'onestà del fotografo può servire a garantire che le copie siano approvate, certificate e numericamente limitate. Del resto quello del collezionismo è un mondo assai bizzarro.

Expertises difficili e contraddittorie, falsi ritenuti veri e viceversa, in altre arti figurative sono quasi di normale amministrazione. Tuttavia a ben pensarci in un certo senso il digitale ha riportato la fotografia alle sue origini, alla possibilità per un'unica persona, anche priva di approfondite conoscenze tecniche, di seguire tutto il procedimento, a partire dallo scatto  per finire alla copia riprodotta a monitor, su carta o altri materiali. Inoltre, come detto per quanto riguarda la fotografia a colori, un tempo era impossibile al fotografo seguirne interamente il processo. Se lavorava in diapositiva per la stampa tipografica lo scatto consegnato doveva essere perfetto, non poteva assolutamente essere manipolato dall'autore. Sappiamo bene che in ambito digitale il fotografo, con opportuni software, può operare personalmente in modo quasi infinito, fino ad ottenere quello che considera il file definitivo per la stampa o la visione a monitor.